LA LUCE E LA SUA OMBRA
La voce dei muti, di chi grida la propria sofferenza ogni giorno senza essere ascoltato.
Gli invisibili che vivono all'ombra della propria luce.
Pazzi, puttane, tossicodipendenti, orfani, anziani, barboni.
Saranno loro i protagonisti di questa piccola collana di racconti che prende il nome di Puzzle.
Quando bussano trovano sempre chiuso e LiberaMente vuole provare a lasciargli la porta aperta.
Alda Merini
Girava su sè stesso mentre il suo sguardo ruotava intorno al sole.
Nelle due ore d’aria che la casa di cura concedeva ai suoi inquilini, Tedd Braines sembrava sparire tra i raggi di sole e pareva inseguirli con la carica di un bambino a cui regali la prima bicicletta.
Di anni ne aveva ormai, ma non ricordava quante candeline avesse spento sulla sua ultima torta. L’unica cosa che, da sempre, contava, erano le stelle perchè quando lo faceva gli sembrava di galleggiare nell’universo.
Per lui la terra era un parcheggio ad ore, attendeva solo il momento di partire, di sfrecciare tra le galassie lasciando dietro di sè una sorta di impenetrabile follia.
“Gli umani sono esseri noiosi : dormono, mangiano, lavorano alternando piscia e cacca finchè un giorno non se ne vanno per sempre” - Ripeteva con fare sicuro a chiunque gli rivolgeva la propria attenzione.
A farlo erano in pochi :
Demon, l’amico schizzofrenico, compagno di corse felici intorno alla fontana dell’ Eglington Asylum a Cork, Edgar, il bambino autistico di settant’anni , Eden, il “sanissimo” cane della casa di cura, un Border Collie cieco a cui Tedd rimediava sempre qualcosa da mangiare e la dottoressa Sharon Bealey , psichiatra dolce e gentile nonchè donna preda delle sue voluttuose fantasie sessuali.
L’Eglington Asylum diventò il contenitore dei labirinti della sua mente da quando Tedd decise che vestirsi fosse una cosa da essere umani, una pratica noiosa e per questo motivo, di punto in bianco, smise di farlo.
“Il mio affare, il mio coso, dai...il mio attrezzo è il mio personale navigatore satellitare, se lo copro con un paio di mutande non saprei più dove andare. Mi sentirei perso come un agnello in una tempesta".
Sapeva ridere Tedd e sapeva farlo meglio di chiunque altro e quando lo faceva , le rondini spiccavano il volo e anche l’ombra ritrovava un pò di luce.
La cosa che sapeva fare meglio, però, era chiudere gli occhi perché era capace di tenerli chiusi per ore ed ore senza correre il rischio di addormentarsi.
La cosa che sapeva fare meglio, però, era chiudere gli occhi perché era capace di tenerli chiusi per ore ed ore senza correre il rischio di addormentarsi.
Ad occhi chiusi, Tedd, era capace di volare via. Esplorava mondi e pianeti racchiusi dentro la sua fervida immaginazione e quando è “ in vacanza” era inutile provare a parlargli perchè di lui non restava che un corpo, una carcassa completamente abbandonata.
Tedd partiva almeno un paio di volte al giorno e di solito “staccava il biglietto” un pò prima dei suoi esileranti colloqui con la dottoressa Bealey, un pò perchè fremeva dalla voglia di raccontarle il suo ultimo viaggio ma soprattutto perchè il momento della “seduta” era l’unico in cui poteva ritrovarsi da solo con lei e Tedd non se lo sarebbe perso per nessuna cosa al mondo.
Poco prima delle sue quotidiane terapie iniziava a canticchiare un vecchio motivo che era solita cantargli sua madre quando, da piccolo ,aveva la febbre e mentre lo faceva non smetteva di saltellare intorno alla sua piccola stanza bianca.
Ognuno degli abitanti dell’Eglington Asylum allora, per inconsapevole solidarietà, si abbandonava alla musica cercando di riproporre ed accompagnare l’acrobatico canto di Tedd con ogni strumento necessario.
Così Demon irrompeva in cucina afferrando ogni pentola che poteva, Edgar percuoteva in maniera energica dei bicchieri di vetro con un cucchiaino come se volesse scacciare il suo autismo lontano dal mondo.
La dottoressa Bealey, invece, ogni giorno a quell’ora sfogliava con la consueta cura le pagine del suo quotidiano preferito quasi fossero petali di una rosa finchè la jam session non aveva inizio.
Poi dalla finestra, assisteva attonita alla fragorosa potenza della felicità.
E si perchè l’Eglington Asylum pareva vestirsi a festa in quell’ occasione e la malinconia della casa di cura spariva in punta di piedi lasciando spazio ai suoni e ai colori di questa allegra banda di sciroccati.
Davanti a tutto questo, Sharon, si sentiva in colpa.
I suoi pensieri scavalcavano i cancelli angusti dello storico manicomio e finivano per perdersi nel traffico cittadino. Tra un clacson e un semaforo rosso pensava alla sua solitudine e alle buste della spesa che da anni ormai, riponeva da sola nel suo frigorifero da trecento sterline.
Era talmente presa dal suo lavoro che da tempo non riusciva a concedersi il lusso di una distrazione.
Gli uomini, per strada , la guardavano, le sorridevano ma poi tiravano avanti forse perchè spaventati dalla sua bellezza o disorientati dalla gestualità di una donna che sembrava aver chiuso a chiave la porta del suo cuore.
A quarant’anni non era mamma, non era moglie. Si sentiva una donna part-time.
Aveva speso cosi tanto tempo a prendersi cura dei problemi degli altri da essersi dimenticata dei suoi sogni.
Se li era persi per strada,qualche anno prima, forse nell’ora di punta dell’intenso traffico di Cork e si sentiva in colpa per non aver tentato di riafferrarli.
Da quel giorno aveva imparato a sognare con gli occhi degli altri.
Il camice bianco dell’Eslington, nel riflesso della finestra, la riportò alla realtà.
L’orologio segnava le 16.05. Era in ritardo per la seduta con Tedd.
-Sharon: Buonasera Tedd! Di cosa vorresti parlarmi oggi?
-Tedd: “Trovo strano che in un pianeta cosi rotondo ci vogliano le palle quadrate!”
-Sharon: “Oggi hai visitato altri pianeti? Che forma avevano?”
-Tedd: “Ne ho visti un pò di tutte le forme, ero io che non ne avevo una. Era come se fossi in uno stato gassoso come le mie scoregge.
-Sharon: “Non scherziamo Tedd!”
-Tedd: “Non stavo scherzando dottoressa! Il mio ultimo viaggio mi ha portato talmente lontano che ho la sensazione di essere riuscito finalmente a dare una forma, un senso a questa realtà”
-Sharon: “ Continua pure!”
-Tedd: “ Questo non è il mio posto. Questo confine fatto di cancelli che lambisce i miei passi e che giorno dopo giorno soffoca l’aria che respiro non è il mio posto.
La fontana nel giardino intorno alla quale ho corso per anni o quella panchina là fuori dove mi siedo ogni giorno a fissare il cielo non mi appartengono ma mi possiedono.
Questi abiti che ogni giorno volete che io indossi non sono miei.
Vogliamo parlare del numero che ho sul taschino di questa camicia ? Io non sono un numero. Io esisto.
E’ vero, fuori non saprei dove andare perchè sono anni che mi tenete qui dentro. In questo fottutissimo manicomio non ho imparato a vivere, ma sto imparando a smettere di esistere.
Per quanto tempo ancora dovrò contenere i miei passi?”
La dottoressa Bealey, mentre le parole di Tedd scorrevano come l’acqua fresca di un fiume in piena si ricordò, all’improvviso, di quelle usate dal Dott. Kelly quando le presentò il suo caso.
“ Tedd soffre di una grave forma di schizzofrenia, è un paziente disorganizzato e completamente dissociato dalla realtà, un paziente che vive tra deliri e allucinazioni. Per questa ragione il giudice Waterfall ha emesso che Tedd Baines è incapace di intendere e di volere e che di conseguenza, dev’essere internato in una casa di cura perchè non è nelle condizioni di badare a sè stesso oltre che potenzialmente pericoloso per la comunità.”
Era una forma di ergastolo, una gabbia di parole dalla quale Tedd non sarebbe più uscito.
Così Sharon guardò gli occhi di Tedd e le sue pupille verdi che di pericoloso avevano soltanto un’incontaminata purezza e ripensò a quando se lo ritrovò davanti per la prima volta, così spaventato e così solo da far abbassare lo sguardo perfino alla solitudine.
L’uomo che aveva davanti ora era un uomo diverso. Non era meno solo di allora ma di certo, lo sfogo di poc’anzi lo rendeva molto meno pazzo di ogni uomo sano di mente contro il quale si era imbattuta.
Per la prima volta nella sua carriera Sharon era rimasta ammutolita di fronte ad un suo paziente.
Le lancette dell’orologio alle sue spalle segnavano le 17.00.
L’ora della terapia stava volgendo al termine.
Cosi Tedd la sorprese ancora una volta perchè di solito era suo compito chiudere la seduta con consigli e raccomandazioni.
“ Viviamo in un paradosso dottoressa , quello di provare ad una gabbia di matti che non siamo matti”
Poi si alzò dalla poltrona e prima di uscire dalla stanza si abbassò leggermente sussurrandole all’orecchio:
“La mia più grande follia è stata quella di sbattere così forte contro l’essere umano da essere finito per deragliare sui binari della libertà.”
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